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Migration and crime notes on recent analysis and methodological proposal

by Francesco Grandi
The immigration and crime nexus hold a special place in the public speech and in the perception of people when they have to justify their feel of fear and insecurity. But one thing is detect and investigate the subjective perception or to study the rhetoric of media and of  political speech, another thing is to analyse the right sources of data available to understand in the right way the real dimension of the phenomenon and the other problems related. Recently different methodological proposals of selection and analysis of data on criminality (but also on victimization) of immigrants have been suggested. This article wants to summarize the principal results of this recent debate.

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Non da oggi l’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali richiama gli stati membri al presidio attento degli effetti che la paura, il sentimento che in modo preminente sembra dominare lo stato d’animo collettivo attuale, e in particolare la paura dell’altro, è in grado di produrre in termini di rappresentazioni ed atti discriminatori verso chi, all’interno delle nostre società, è ritenuto “diverso”.
Tracciare una “storia della paura” degli ultimi decenni in Italia per sociologi, psicologi sociali, analisti dei media, criminologi ha significato infatti analizzare il sentimento d’insicurezza diffusa e le preoccupazioni crescenti per la criminalità in sovrapposizione e saldatura con la rappresentazione del fenomeno migratorio. Detto in altri termini, l’evoluzione della rappresentazione dell’immigrato nelle nostre società ha accompagnato il progressivo incremento della percezione soggettiva di minaccia all’incolumità personale e famigliare, alla proprietà, all’ambiente domestico, alla posizione sociale e lavorativa, vissuti in termini di pericolo e rischio.
Se  fra i termini “in/sicurezza e criminalità si è stabilita, negli ultimi dieci anni, una relazione stretta e inscindibile” (Demos, Osservatorio di Pavia, 2010), la “questione criminalità” e la “questione immigrazione” si sono saldate nel discorso pubblico e negli immaginari collettivi (dimostrando efficacia elevata in termini di ritorno di consenso per chi ne ha alimentato la sovrapposizione) e il binomio è andato progressivamente rafforzandosi ancorato ad altre dinamiche di mutamento (il sentimento di crescente sfiducia nelle istituzioni, la riduzione delle reti di reciprocità, lo spaesamento cognitivo prodotto dai processi di globalizzazione, in particolare nelle sue ricadute sugli aspetti centrali della vita associata, i timori di natura ambientale, etc.). I recenti dati messi a disposizione dall’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza mostrano come il binomio immigrazione-insicurezza oggi, in tempo di crisi economica, si arricchisca in modo più rilevante che in passato del timore degli immigrati quale minaccia oltre che per l’ordine pubblico anche per l’occupazione.
A questo si aggiungono, da un lato, gli effetti prodotti dai livelli di esposizione ai media delle persone (ricerche comparative hanno rilevato che l’ampio spazio dedicato alle notizie sulla sicurezza dalla televisione italiana non ha eguali negli altri stati europei) che contribuiscono alla conferma e amplificazione dei pregiudizi socialmente diffusi oltre che alla scollatura tra percezioni e dato di realtà, ma anche, dall’altro, il rilievo che viene dagli “studi sulla vittimizzazione” che mostrano come i soggetti più insicuri siano anche i più vulnerabili e poco protetti dalle conseguenze negative in cui potrebbero incorrere se subissero un reato. La probabilità di provare insicurezza si distribuirebbe infatti tra i diversi gruppi sociali in funzione delle risorse economiche, sociali, culturali e fisiche di cui essi sono dotati. In questa prospettiva analitica le categorie più a rischio di insicurezza risultano essere le donne, gli anziani e chi ha un basso titolo di studio o chi è collocato nella parte bassa della scala di stratificazione sociale (Triventi, 2009). Sono le categorie più vulnerabili, solitamente più isolate socialmente e spesso più esposte alla programmazione televisiva, con tassi di partecipazione socio-poltica più contenuti ad aver visto aumentato il senso di insicurezza per l’incolumità fisica (anche in contrasto con quanto descritto dall’andamento reale dei reati), in particolare la percezione della minaccia criminale.
Prendere sul serio l’analisi della paura quale spia, tra le altre, per disegnare un’agenda di politiche pubbliche che sappia incaricarsi di dare risposte concrete a problemi reali (e non virtuali) e promuovere opportunità ed esperienze di benessere che siano anche cognitivamente rilevanti per nuove interpretazioni e narrazioni del proprio presente, non è affare semplice.
La paura infatti, letta in questa chiave, come ha lucidamente scritto Sofsky (2005), non è solo un sentimento protratto di inquietudine generato dall’attacco di forze esterne cui non si è attrezzati a replicare e di fronte alle quali si è ineluttabilmente abbandonati, quanto preliminarmente è la denuncia di un’insufficienza che nasce da una propria incapacità di lettura e di governo del presente. Questo doppio deficit, si sa, è strettamente connesso e le potenzialità di risposta efficace di alcune opzioni di governo dipendono anche dalla capacità di rappresentarsi i fenomeni fuori dalla logica puramente strumentale di utilizzo del panico morale per obiettivi di consenso o di alimentazione dello stereotipo e della criminalizzazione degli immigrati a fini di sfruttamento ed inclusione subordinata e differita.

Se nell’arena politica non si interrompe lo stillicidio di dichiarazioni criminalizzanti che sovrappongono la figura del richiedente asilo a quello del clandestino o quella dell’immigrato irregolare a quella del criminale tout court, recenti indagini e riflessioni metodologiche hanno riportato l’attenzione sulla necessità di dotarsi dei giusti strumenti analitici e delle necessarie accortezze metodologiche per poter trattare correttamente dati e informazioni e produrre nuove conoscenze per rappresentare fenomeni come quello della criminalità degli immigrati nelle sue dimensioni quantitative e qualitative reali, fuori dalla logica dell’allarme sociale e attente a restituire ai responsabili delle politiche un quadro realistico su cui poter agire coerenti azioni di intervento.
Si è richiamato da parte di alcuni studiosi la necessità di guardare allo spettro complessivo delle fonti disponibili, comprenderne parzialità e originalità, mantenendo un forte impianto comparativo per non “assolutizzare” interpretazioni basate su fonti parziali. L’integrazione di più fonti e la loro messa a confronto permette di valorizzarne i segmenti validi e ridimensionarne gli aspetti parziali (Pittau, 2010).
Le principali fonti statistiche giudiziarie che possono essere utilizzate per una descrizione del fenomeno della criminalità in Italia sono a) le statistiche della delittuosità  che permettono di tracciare l’andamento del fenomeno in chiave temporale, b) le statistiche della criminalità (ovvero le persone denunciate all’Autorità giudiziaria per cui è iniziata l’azione penale) che consentono di confrontare le differenze tra autori di reato italiani e stranieri, c) le statistiche dei condannati per valutare le diverse tipologie di pena comminata, d) le statistiche degli istituti penitenziari per analizzare le presenze in carcere (dati DAP). A queste, per un quadro esaustivo e per le ragioni sopra richiamate relative alle dinamiche di vittimizzazione, si dovrebbe aggiungere l’analisi dei dati riguardanti le vittime e quindi anche la condizione degli immigrati quali vittime di reato, sebbene siano ancora molto scarse, soprattutto in Italia (a differenza di altri stati europei) le indagini su questo argomento.
Per inquadrare il fenomeno e i trend della delittuosità in Italia possono essere utilizzati i dati del Ministero dell’Interno SDI che raccolgono i delitti denunciati dalle Forze dell’Ordine all’Autorità Giudiziaria. La banca dati del Ministero dell’interno consente la costruzione di serie storiche per la descrizione dell’andamento della criminalità. Nell’utilizzo di questi dati, in particolare nell’analisi dei dati disaggregati per territorio o per tipologia di reato, la valutazione di alcuni picchi di crescita possono essere addebitate al cambiamento avvenuto nel sistema di rilevazione dati, passato dal modello 165 cartaceo al formato informatizzato SDI. La maggiore efficienza nella raccolta informativa che ne è derivata spiega alcune variazioni improvvise rispetto ad andamenti che per alcuni reati e su alcuni territori, hanno mostrato una numerosità costante nel tempo. Per alcune tipologie di reato, in particolare dei reati connessi alla produzione e spaccio di stupefacenti le oscillazioni dei dati possono essere fortemente influenzate dalle attività intraprese dalle Forze dell’ordine. Questa osservazione può valere in via generale e trasversale per l’insieme di questi dati che possono risentire dell’intensità delle operazioni delle Forze dell’ordine: quando, infatti, in un clima di preoccupazione crescente e diffusa per le condizioni di sicurezza e incolumità, le forze di polizia reagiscono incrementando la propria presenza formale sul territorio può incrementare il numero delle persone arrestate e/o denunciate (Canneppale, Mugellini, 2010). Dall’analisi delle serie storiche ricavate da questa fonte è possibile osservare un andamento tendenzialmente costante della delittuosità in Italia. Se l’interesse analitico è quello di indagare il rapporto tra immigrazione e criminalità questo primo dato permette di esprimere una prima argomentazione: in Italia a fronte di un incremento di circa il 500% del numero dei permessi di soggiorno dal 1990 ad oggi, i tassi di criminalità sono rimasti pressoché invariati (Boeri, 2010). Sulla stessa linea dell’osservazione di Boeri si iscrive l’analisi di Pittau che mette a tema una questione importante relativa alla “popolazione di riferimento” dei dati. Egli parte dalla serie storica delle denunce presentate in Italia contro i cittadini stranieri dal 2005 al 2008 e ne analizza la sequenza, chiarendo in partenza che dietro l’etichetta “straniero” vengono contabilizzate diversi segmenti di popolazione, ovvero: cittadini stranieri residenti, cittadini stranieri titolari di permesso di soggiorno non ancora registrati alle anagrafi, cittadini stranieri regolarmente presenti ma con titoli di soggiorno che non comportano l’inserimento come immigrati (affari, visite, cure, etc.), turisti stranieri che vengono in Italia per lo più in esenzione del visto, gli stranieri presenti irregolarmente. Nel periodo considerato da Pittau l’aumento complessivo delle denunce a carico degli stranieri è stato del 19,9% con un calo registrato nel 2008 a fronte di un incremento nel numero di residenti stranieri del 45,7% nello stesso arco di tempo: “Una tale sequenza autorizza a concludere che, anche se le denunce riguardassero solamente i cittadini stranieri residenti, l’incremento dei reati sarebbe inferiore all’incremento della popolazione straniera, minando così alla base l’equiparazione tra aumento della popolazione straniera e aumento della criminalità” (Pittau, 2010).

L’analisi di Pittau apre ad un tipo di ragionamento che guarda alla traduzione dell’aumento dei denunciati sulla popolazione degli autori di reato e quindi alla possibilità di ragionare sulla comparazione tra stranieri ed italiani tramite l’utilizzo delle statistiche della criminalità che descrivono gli andamenti della numerosità delle persone denunciate per cui è iniziata un’azione penale. Il tasso di autori noti della popolazione straniera superiore alle media dei cittadini italiani è stata spiegata in un approfondimento del centro di ricerca Transcrime con la condizione di irregolarità, lo stato di precarietà socio-economica, abitativa, lavorativa e famigliare-affettiva, le differenze culturali e linguistiche, la collocazione di immigrati devianti in attività della filiera criminale più esposti e rischiosi, una generale maggiore visibilità dovuta a tratti somatici diversi. Un altro dato che può spiegare l’asimmetria di presenza tra italiani e stranieri nelle statistiche criminali “è la scarsa propensione alla denuncia di questi ultimi. Ovviamente la condizione di irregolarità costituisce un ostacolo e rende quasi impossibile la collaborazione tra forze dell’ordine e irregolari” (Caneppele, Mugellini, Balzaretti, Pavesi, 2010). Le statistiche della criminalità permettono dunque di rapportare l’andamento degli autori di reato con quello della popolazione presente in Italia e/o in un determinato territorio. Sulla base di questi dati e sulla base delle esigenze comparative tra popolazioni, sono state proposte diverse modalità di calcolo di un “tasso di criminalità” o meglio del tasso di stranieri denunciato per cui l’Autorità giudiziaria ha iniziato l’azione penale. In alcuni casi il tasso viene calcolato in rapporto ad un denominatore che corrisponde al totale stimato degli stranieri regolari e irregolari (con le differenze nelle proposte di stima (cfr. Bonifazi, 2007) che incidono sulla variabilità del tasso), in altri su un denominare che corrisponde al totale dei cittadini stranieri che soggiornano legalmente, sulla base dell’evidenza che emerge dai dati del Ministero dell’Interno per i quali la quota maggioritaria dei reati è opera dei cittadini stranieri senza permesso di soggiorno.
Un altro tipo di ragionamento riguarda la tipologia di reati che vengono considerati per la composizione del numeratore. C’è chi come Barbagli (2010) contesta l’impostazione di chi considera i reati in modo aggregato, calcolando un tasso “generico e indistinto”. Per lo studioso il fatto che sia alta la variazione nella frequenza di violazione del codice penale da parte degli stranieri a seconda della tipologia di reato, dello stato giuridico degli immigrati e dalle nazionalità, rende più utile un’analisi disaggregata che lo porta ad esempio ad escludere  “i cosiddetti reati dei “colletti bianchi” e dei potenti (corruzione e concussione, appropriazione indebita, insider trading e aggiotaggio) perché […] questi continuano ad essere commessi quasi esclusivamente dagli italiani” (Barbagli, 2008). Altri, con ragionamento speculare ma privilegiando un’analisi aggregata e questa volta a fini comparativi, propone modalità di calcolo che escludono dal numeratore quel tipo di reati connessi alla violazione della legge sugli stranieri.
In un recente studio di Caritas/Redattore Sociale (2009) per perseguire i fini comparativi di cui sopra, si esclude la possibilità di un confronto tra popolazioni attraverso il calcolo di tassi ponderati di criminalità che tengano conto della media delle pene edittali previste per i singoli reati (per la ragione che gli stranieri sono assoggettati a reati aggiuntivi non previsti per gli italiani) e si calcolano i tassi di criminalità seguendo proprio un’indicazione metodologica contenuta nel Rapporto sulla criminalità in Italia, ovvero epurando gli stranieri denunciati dalla componente irregolare (quindi usando come base di calcolo solo il 28,9% del totale delle denunce del 2005 – ultimo dato disponibile - ovvero solo quelle riferite ai cittadini stranieri in possesso di permesso di soggiorno) e calcolando due diversi tassi rapportati uno alla popolazione residente (iscrizioni anagrafiche) e l’altro alla stima delle presenze regolari (Dossier Caritas/Migranti). Il risultato è un tasso di criminalità dello 0,75% per gli italiani e di 1,41% se rapportato agli stranieri residenti e dell’1,24% se rapportato alla stima della popolazione regolarmente presente. L’ulteriore rilievo proposto da questo studio riguarda le differenze tra i tassi di autori di reato italiani e stranieri nella fascia d’età tra i venti e i trent’anni, il periodo di inizio dell’esperienza migratoria e in cui vengono fatti dagli immigrati i maggiori sforzi per l’integrazione nel nuovo contesto, mentre dai 40 anni in poi, italiani e stranieri hanno un tasso di criminalità simile, anzi più basso per i cittadini stranieri. I due tassi si avvicinano ulteriormente anche nella fascia d’età più giovane se si escludono dalla somma le infrazioni delle leggi sull’immigrazione che totalizzano almeno un sesto delle denunce. A questo, aggiunge Pittau, “se si potessero compiutamente considerare le più sfavorevoli condizioni giuridiche-socio-economiche-familiari degli immigrati (avere lo  stesso livello di istruzione, essere occupati, avere con sé la famiglia, godere di un certo agio economico) la bilancia finirebbe per restare in equilibrio se non per pendere dalla loro parte” (Pittau, 2010).
Se dall’insieme dei ragionamenti proposti a partire dalle statistiche di criminalità e dai dati proposti dalla relazione ministeriale del 2007 la “questione criminalità” appare riguardare in prevalenza gli immigrati irregolari quale gruppo maggiormente a rischio di “coinvolgimento in attività devianti e illegali, in cui spesso – è bene ricordarlo – ricoprono il ruolo di vittime (si pensi solo ai casi più eclatanti di sfruttamento della prostituzione e/o del lavoro nero” (Caneppele, Mugellini, Balzaretti, Pavesi, 2010) e per il fatto stesso di non essere in regola con la normativa del soggiorno, con i risvolti di tipo penale che questa condizione ha recentemente assunto. Anche questo dato non consente però la sovrapposizione di “immigrati irregolari” con  il profilo del criminale. E’ infatti necessario tenere in considerazione un altro aspetto strutturale del fenomeno migratorio del nostro paese e delle traiettorie tipiche di molti percorsi migratori di entrata e uscita da posizioni di irregolarità. Superano i due milioni gli immigrati che prima erano irregolari e che oggi sono inseriti regolarmente nella nostra società: “Dire che gli immigrati irregolari sono tutti delinquenti o potenziali criminali è un’affermazione fuori luogo. Anzi, due terzi di chi oggi lavora onestamente è passato dalle forche caudine della clandestinità” (Cesareo, 2010). Su questo punto anche una recente indagine sugli immigrati condotta nel 2009 in otto comuni del nord Italia dalla Fondazione Rodolfo Benedetti mostra come circa 6 su 10 degli immigrati intervistati attualmente regolari hanno vissuto periodi, anche non brevi, di clandestinità. Questo non significa sminuire i reati commessi dagli immigrati irregolari ma correggere una facile equazione del senso comune e di certe retoriche politiche. Tutti questi elementi rappresentano ulteriori dati di riflessione per il legislatore e per i responsabili delle politiche pubbliche territoriali.

Un ulteriore dato che può essere utile comparativamente analizzare anche per gli effetti che produce sulla composizione della popolazione carceraria, è la distribuzione delle tipologie di sanzione penale erogate. Questo tipo di analisi permette infatti di valutare l’andamento della severità delle sanzioni penali e se vi siano differenze nell’applicazione della pena a parità di reato tra italiani e stranieri. E’ noto infatti che la popolazione immigrata ha potenzialmente meno probabilità di beneficiare di sanzioni pecuniarie, disponendo di risorse economiche più limitate, sia per procurarsi una buona difesa sia per avvalersi dello strumento dell’oblazione. L’ordinamento infatti prevede che nella determinazione della pena si tengano in considerazione le condizioni del reo. Se questo risulta inabile a pagare la pena pecuniaria, questa non gli può essere concessa.
Da ultimo, come detto, un’ulteriore fonte a disposizione per completare il quadro è rappresentata dai dati messi a disposizione dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria che mostrano la sovrarappresentazione della popolazione immigrata in carcere rispetto alle percentuali della sua presenza nel paese. L’analisi della serie storiche mostrano un’incidenza crescente e progressiva della popolazione carceraria straniera. Questo trend, come suggerito da Caneppele e Mugellini (2010), è da leggere alla luce di due altri fattori, correlati tra loro: l’elevato tasso di recidiva (quale fallimento della funzione rieducative della pena) e il sovraffollamento carcerario (contestualmente prodotto e causa di recidiva). Ulteriori dati riferiti al 2008 permettono di inquadrare alcune dinamiche che attengono al meccanismo del percorso del sistema penale italiano. Se il 45,4% degli italiani si trova in carcere per scontare una sentenza definitiva, contro il 37,7% degli stranieri, si può dedurre  “una funzione maggiormente custodialistica del carcere nei loro confronti” (Caritas/Redattore Sociale, 2009). Un approfondimento di Transcrime (2007),  ha mostrato come la sovra rappresentazione di alcune categorie sociali marginali all’interno della popolazione carceraria dipenda da una debolezza tecnica dell’imputato nell’iter processuale italiano, debolezza – come già detto – correlata alla scarsità di risorse economiche. Questa condizione “alimenta un processo penale sul modello fast-food dove entrambe le parti tecniche (pubblico ministero e avvocato difensore) trovano una comunanza di intenti  nell’accelerare i tempi del processo verso riti alternativi (in particolare il patteggiamento) che non sempre possono rappresentare la soluzione ottimale per l’imputato doppiamente penalizzato anche dalla scarsa conoscenza della lingua italiana”. A questa fragilità tecnica legata allo stato di povertà dei soggetti si aggiungono le condizioni di irregolarità e di precarietà abitativa e lavorativa che fanno propendere il giudice per custodie cautelari in carcere nella fase delle indagini e alla sanzione detentiva.

Nella direzione di supportare la proposta di soluzioni possibili (per quanto complesse), il diverso portato informativo delle fonti elencate e le proposte analitiche che abbiamo sinteticamente presentato, propongono a chi voglia affrontare il tema della criminalità degli immigrati fuori dalle pressioni dell’allarme sociale e delle distorsioni di lettura prodotte degli effetti di insicurezza percepita, la necessità di guardare alla parzialità e al limite delle fonti (insieme alle caratteristiche in evoluzione dei metodi di rilevazione del dato) e di mantenere, laddove possibile e con gli accorgimenti del caso, un approccio comparativo con la popolazione italiana, privilegiando analisi di lungo periodo che possano descrivere reali linee di tendenza del fenomeno. A questo si aggiunge l’esigenza di connettere in modo coerente l’analisi dei trend con le trasformazioni dei quadri legislativi, con le caratteristiche socio-demografiche delle popolazioni oggetto di indagine e sui differenziali prodotti dai fattori di contesto delle diverse aree del paese (cfr. Blangiardo, 2010).  Ciò che emerge da un’attività d’analisi non preoccupata da esigenze ideologiche o di consenso è un quadro complesso che mostra innanzitutto la non linearità del nesso immigrazione-criminalità e che nella prospettiva di cogliere e promuovere possibili soluzioni chiama in causa una pluralità di attori e risorse che sappiano investire contemporaneamente sulle politiche di accoglienza, integrazione e cittadinanza (a partire da un nuovo quadro legislativo che renda veloce il diritto al godimento dei benefici di legge e guardando ai passaggi più fragili delle carriere migratorie ed a quelli potenzialmente più criminogeni), su politiche del lavoro che eliminino le forme di sommerso e sfruttamento, su nuove istanze comunicative e culturali che riducano l’elemento di allarme e annullino l’esasperazione criminalizzante riservata pregiudizialmente ad alcune categorie di popolazione (guardando anche alla “vittimizzazione” degli immigrati, arginando l’esposizione mediatica esasperata sui temi della criminalità e dell’insicurezza), su azioni preventive del crimine e su misure detentive o alternative alla detenzione che assicurino la funzione rieducativa della pena nel contesto di un sistema giudiziario più efficiente. In altri termini, prendere sul serio il sentimento di paura e insicurezza diffusa tra la popolazione (compresa quella immigrata) e la criminalità di immigrati e italiani, permette di riflettere sulla complessità dei fattori in gioco e di guardare contemporaneamente alle diverse vulnerabilità che attraversano la nostra società, supportando ipotesi di risposta da perseguire per una società più giusta per tutti.


Bibliografia

Barbagli M., Stili di ricerca, in “Etnografia e ricerca qualitativa”, n.1, 2010.
Barbagli M., Immigrazione e sicurezza in Italia, Il Mulino, 2008.
Blangiardo G., Immigrazione e criminalità: la parola ai dati statistici, in “Libertàcivili”, n.1, 2010
Boeri T., Immigrazione non è uguale a criminalità, in “La Voce.info”, febbraio, 2010
Caneppele, Mugellini, Evoluzione del fenomeno criminalità: italiani e stranieri a confronto in Dieci anni di immigrazione in Lombardia, 2010.
Caneppele S., Mugellini G., Balzaretti M., Pavesi I., Devianza degli immigrati e rischio criminalità in Italia, in Cesareo V., Bichi R., Per un’integrazione possibile. Periferie urbane e processi migratori, Franco Angeli, 2010.
Demos e Osservatorio di Pavia, La sicurezza in Italia. Significati, immagine e realtà, Quaderni di Unipolis, maggio 2010.
Dossier Caritas/Agenzia Redattore Sociale, La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi, 2009.
Fondazione Rodolfo Debenedetti, Indagine sull’immigrazione nelle città italiane, 2009.
“Due lavoratori onesti su tre sono stati irregolari per forza”. Intervista a Vincenzo Cesareo, in  “La Repubblica”, 11 maggio, 2010.
Ministero dell’Interno, Rapporto sulla sicurezza in Italia, 2007.
Pittau F., Immigrazione e criminalità: cosa dicono i dati, in “Etnografia e ricerca qualitativa”, n.1, 2010.
Transcrime, Gli stranieri  in cercare tra esclusione e inclusione: l’esperienza trentina, in “Infosicurezza”, n.5, 2007.
Triventi M., Insicuri perché vulnerabili? La stratificazione sociale della paura per la criminalità in Italia, in “Polis”, n. 3, 2008.

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