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Evidenze da ricerche empiriche di Synergia su coorti di donne in alcuni contesti italiani

di Luigi Mauri
Mutamento Sociale n.16 - Giugno 2007

Il costante primato demografico del nostro Paese in termini di bassa fecondità, amplifica e accelera l’urgenza di un altro problema: quello dell’invecchiamento. Da qui l’opinione ormai ampiamente condivisa della necessità di efficaci e tempestivi interventi strutturali di policy di sostegno alla famiglia, in particolare alla genitorialità.
In merito a ciò, nel seguito vengono riportati alcuni elementi emersi in quattro social survey recentemente condotte da Synergia in contesti regionali tra loro molto diversi: il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia, la Provincia Autonoma di Bolzano e la Liguria.
L’approccio prevalentemente utilizzato per queste indagini campionarie, basato su interviste face to face a coorti di donne in età cruciale per le scelte e le dinamiche di politica sociale, si presta alla descrizione del mutamento sociale, al tentativo di valutare i meccanismi causali sottostanti al cambiamento e allo studio delle dinamiche sociali (Mauri, Gregori, 2006).
Per questo motivo si intendono qui fornire, a supporto dei contributi di analisi del fenomeno della bassa propensione alla natalità sino ad oggi apportati dagli studiosi, alcuni spunti di riflessione in chiave sociologica emersi da evidenze empiriche di ricerca, al fine di alimentare ulteriormente il dibattito scientifico su uno dei temi più rilevanti dell’agenda politica italiana.

Vincoli e incertezze: lavoro e condizione economico-finanziaria sono percepiti come fattori determinanti la decisione di avere un figlio.
In tutte le indagini condotte, i vincoli e i cambiamenti attesi in seguito alla nascita di un figlio percepiti dalle donne giovani sembrano infatti ricondurre in via prioritaria ad aspetti di tipo economico (reddituale, finanziario, lavorativo); in Liguria ad esempio tra le donne giovani (di 30-34 anni):
- il 62,3% ritiene che la decisione di avere un (o un altro) figlio dipenda dalla propria situazione economica;
- il 57,8% ritiene che il proprio lavoro costituisca un vincolo alla decisione di avere un (o un altro) figlio;
- il 42,8% ritiene che la nascita di un figlio comporti un peggioramento delle proprie opportunità di carriera;
- il 58,3% ritiene che la nascita di un figlio comporti un peggioramento della propria situazione finanziaria.
Mentre per quanto concerne la situazione economica e finanziaria le percezioni delle donne di vincoli e costi sono più alte tra le fasce di popolazione economicamente più deboli e tra i nuclei monoreddito (in particolare, come avviene nella maggior parte dei casi, se il percettore del reddito da lavoro è l’uomo), una sostanziale omogeneità tra status economici si registra invece relativamente ai vincoli connessi al lavoro e alle opportunità di carriera lavorativa. In realtà il vincolo del lavoro alla nascita di un figlio è percepito molto più forte dalle donne che già lavorano e in particolare è molto alto (64,5%) nelle famiglie in cui entrambi i coniugi lavorano, mentre al contrario è percepito in modo molto limitato nei nuclei monoreddito in cui è solo l’uomo a lavorare (34,5%). Ciò sembra suggerire che la decisione di mettere al mondo un figlio non sia tanto vincolata in ordine sequenziale dalla necessità di dover trovare un’occupazione prima di procreare, quanto piuttosto dal fatto che il lavoro, già acquisito, rappresenta un ostacolo alla decisione.

La leva del potenziamento e della flessibilizzazione dei servizi per la prima infanzia: una possibile fonte di riduzione dell’intensità percepita di vincoli e costi.
Tra le donne giovani che hanno effettivamente sperimentato esperienze di figli piccoli da accudire, chi usufruisce del servizio di asilo nido percepisce in modo molto meno netto il vincolo della condizione finanziaria alla decisione di natalità e in una quota maggiore di casi ritiene che con la nascita di un figlio la propria situazione economica non peggiorerebbe.
Tuttavia, la possibilità di fruire di servizi di cura per i figli piccoli, se non accompagnati da politiche volte ad aumentare la conciliabilità tra tempi di vita e di lavoro, sembra non essere sufficiente a garantire una riduzione dei vincoli materiali effettivi: nell’ambito delle strategie familiari di fronteggiamento dei bisogni, la fruizione dell’asilo nido non sembra ridurre significativamente il livello di maggior impegno della donna, del partner e dei nonni nella cura del bambino.

La percezione dei costi-opportunità: le sempre maggiori difficoltà alla nascita del primo figlio (rispetto al secondo)
Di fatto oggi è la nascita del primogenito a comportare più rinunce e per molte famiglie la problematicità non sta nella scelta di avere un secondo figlio quanto nella criticità di avere il primo. Rispetto alle generazioni di madri precedenti, è la nascita del primo figlio a comportare infatti più sacrifici per le donne più giovani, in termini soprattutto di rinuncia, totale o parziale, al lavoro (per ben una donna su tre in Liguria) e di carriera (per il 28% delle giovani donne liguri e per il 20% in Alto Adige).
Dall’indagine condotta in Friuli-Venezia Giulia, emerge come è solo per le coorti di donne più giovani che la ridefinizione delle condizioni lavorative si accompagna alla constatazione di rinuncia a una propria carriera, indicatore evidente del mutamento del mercato del lavoro avvenuto tra la fine degli anni ’70 (quando le donne neomadri rifluiscono senza traumi nella popolazione non attiva, non essendosi ancora diffuse possibilità di carriere femminili sul mercato) e gli anni ’80 (quando la donna neomadre che esca dal lavoro a tempo pieno paga un alto costo-opportunità, rinunciando a una carriera possibile).

L’intollerabilità percepita dei costi nel sistema di credenze diffuse: la perfetta simmetria informativa sui costi delle scelte di maternità sostenuti ex post “dagli altri” e i costi percepiti ex ante “per sé”.
La percezione dei costi alla nascita del primo figlio comporta anche che il calendario di vita venga dilazionato, ma in realtà non perché si sia sperimentato sulla propria pelle il costo dei passaggi della formazione della famiglia, quanto perché la conoscenza di questi parametri di costo si è generalizzata. Coerentemente con il paradigma delle scelte razionali le intenzioni e i progetti degli individui sono influenzati dal sistema di credenze diffuse: responsabile dello slittamento delle preferenze è una mutata percezione dell’intollerabilità dei possibili costi. Dalle nostre indagini empiriche (cfr. survey in Friuli-Venezia Giulia) la percezione dei costi delle scelte di maternità in termini di rinuncia al lavoro (totale o parziale) e alla carriera risulta essere praticamente identica tra chi ha già effettivamente sperimentato la nascita di un figlio e chi ancora no. Questo aspetto è particolarmente rilevante perché è nel passaggio tra aspettative (adattive o razionali che siano) e intenzioni che si determina l’effetto del prolungamento dei tempi di family formation e della bassa propensione alla natalità. Così, nella complessa interazione tra atteggiamenti diffusi, norme soggettive e vincoli comportamentali percepiti, se l’obiettivo di un ciclo di vita familiare completo diventa di difficile realizzazione, la sopravvalutazione dei costi per raggiungerlo è uno dei possibili elementi argomentali di valutazione a sostegno della scelta di rinunciarvi, così come una marcata accentuazione di una caratteristica delle scelte familiari che ne alza moltissimo il costo: l’irreversibilità delle scelte legate alla formazione di una famiglia, che si traduce, nelle percezioni dei nuovi nuclei nel timore di un’irreversibilità della condizione della donna di non occupazione (inattiva o disoccupata) in caso di uscita dal mondo del lavoro connessa alla nascita di un figlio.

La flessibilità del lavoro a sostegno dell’occupazione femminile e la percezione della facilità di reingresso nel mercato del lavoro come fattori di contrasto alla denatalità.
Un significativo controesempio empirico si rileva nella provincia di Bolzano, dove le maggiori opportunità di un lavoro flessibile sembrano costituire la chiave per comprendere l’alto livello di occupazione femminile e il numero medio di figli per donna relativamente alto (1,5 al 2001 contro l’1,2 del Nord Italia). In Alto Adige una donna che sperimenta l’essere lavoratrice può verosimilmente lasciare temporaneamente l’occupazione con la concreta possibilità di tornare facilmente sul mercato del lavoro (per dare un ordine di grandezza, il tasso di occupazione delle donne altoatesine tra 21 e 40 anni supera abbondantemente il 70%) e in determinati periodi della vita può scegliere abbastanza agevolmente di optare per un’occupazione a tempo parziale: in provincia di Bolzano, tra le occupate una donna su quattro ricorre al part-time e questa quota arriva fino al 50% per le donne con due figli.

Persistenze e trasformazioni  nelle strategie di fronteggiamento delle situazioni di crisi.
La capacità organizzativa e di tenuta del network familiare non si misura solo ed esclusivamente nella semplice gestione della routine di vita quotidiana, dal momento che viene spesso messa alla prova da accadimenti del corso di vita che ne alterano e sconvolgono gli equilibri.
Accadimenti che, più o meno attesi o preventivabili, devono per forza di cose trovare una soluzione di gestione interna al nucleo e che spesso comportano oneri di assistenza e sacrifici economico-lavorativi anche elevati fra i suoi componenti. La nascita di un secondo figlio o l’improvvisa perdita di autosufficienza di un familiare anziano sono classici esempi di situazioni di crisi le cui pressioni sul nucleo comportano scelte diverse di fronteggiamento nella distribuzione interna degli oneri di cura.
Un interessante esercizio può essere quello di “testare”  i nuclei familiari inchiestati su due semplici ma specifici quesiti:
 a) Due coniugi che lavorano aspettano un secondo figlio. Chi lo tiene dopo il congedo di maternità?
b) Una parente anziana non può più vivere sola, i figli lavorano e abitano per conto loro. Come assisterla?
Internalizzare od esternalizzare l’onere di cura; accedere alle reti di assistenza formale o informale; lasciare il lavoro o non rinunciare alle chance di carriera, questi sono solo alcuni degli interrogativi che una giovane coppia si trova a dover affrontare, e le risposte, come le social survey realizzate da Synergia stanno a dimostrare, sono variegate non solo tra contesti territoriali diversi, ma anche e soprattutto nel tempo.
In particolare pare diventare pratica sempre più ricorrente quella di ricorrere al nido in caso di nascita di un secondo figlio pur di poter continuare a lavorare (40% circa delle 30-34enni liguri). La scelta/necessità di preservare il posto di lavoro della madre-lavoratrice emerge oltretutto dalla ancora ingente quota di nuclei familiari che indicano come risorsa attivabile per la cura della prole la rete parentale di supporto (tra il 27% e il 35% delle trentenni liguri, friulane e altoatesine), i genitori della coppia pertanto permangono un punto di riferimento fondamentale nelle strategie di fronteggiamento delle situazioni di crisi. Tra le due opzioni di care, asili nido e rete parentale, risulta essere ad oggi difficile stabilire con certezza quale prevalga, dal momento che nei vari contesti territoriali analizzati non pare emergere una distribuzione delle scelte consistentemente sbilanciata sul ricorso all’una piuttosto che all’altra soluzione di cura. L’aspetto che tuttavia viene alla luce tra tutti, quantomeno nelle realtà del Nord-Italia analizzate, è la graduale riduzione, rispetto a quanto accadeva nei decenni passati, della decisione di autoaddossarsi l’onere di cura della prole, rinunciando inevitabilmente al lavoro.
Nel caso di un anziano non più autosufficiente a carico le soluzioni di fronteggiamento a cui con più ricorrenza si sceglie di far ricorso riguardano la domiciliarizzazione della cura, sia attraverso l’autoaddossamento della stessa (per il 32% delle trentenni liguri e friulane), sia attraverso il ricorso a badanti o a personale infermieristico a pagamento, sia sfruttando i servizi di assistenza domiciliare (circa il 20% sui tre contesti).
Resistenze paiono ancora esservi nell’istituzionalizzazione della cura, a conferma della propensione tipica della realtà italiana ad evitare che l’anziano si distacchi bruscamente dal contesto e dal nucleo familiare in cui è inserito (le percentuali si attestano attorno alla soglia del 10%).

Welfare pubblico: in quantità e di qualità, la richiesta delle famiglie italiane.
Il rapporto di un nucleo familiare con servizi e prestazioni sociali può essere più o meno stretto, la sua verifica e misurazione possono chiamare in causa relazioni diverse tutte ascrivibili a quel rapporto. Di un servizio, in linea teorica, si può infatti ignorare l’esistenza, averne un’idea, conoscerlo davvero, conoscerlo ed essere orientati all’utilizzo, averne esperienza diretta, e infine averne maturato anche un’opinione sulla base dell’esperienza stessa.
Tra i principali servizi di cui le famiglie sperimentino l’effettivo utilizzo compaiono i consultori familiari, i servizi di assistenza economica/domiciliare, gli asili nido e le strutture residenziali per anziani e il dato è confermato sia a livello inter-generazionale sia a livello interregionale.
Per quanto riguarda invece gli aspetti emergenti sugli orientamenti di welfare delle donne inchiestate si nota una sostanziale convergenza di vedute su alcuni indirizzi fondamentali:
a) oltre l’80% delle donne liguri e altoatesine è concorde sul fatto che “lo stato dovrebbe spendere di più per i servizi sociali”;
b) tra il 45% e il 50% delle donne liguri, altoatesine e friulane pensa “i servizi dovrebbero essere pagati almeno in parte da chi li usa”;
c) tra il 35% e 40% di donne liguri e friulane sarebbe disposta a pagare più tasse a patto che vengano garantiti servizi migliori.
L’indicazione di sintesi che emerge da questi risultati è abbastanza chiara sia le donne giovani sia quelle più mature chiedono che l’attore pubblico spenda di più per i servizi sociali e in particolare è ancora forte la richiesta di poter usufruire di welfare pubblico in vece della delega dello stesso al settore privato.

Le opinioni sulle misure di policy a sostegno della genitorialità: incentivi alla conciliazione lavoro-famiglia-tempi della quotidianità ed incentivi al mantenimento dell’occupazione per un migliore work-life balance.
La misura di politica sociale a sostegno dell’avere, del curare e del crescere dei figli che più di ogni altra viene indicata come importante dalle donne riguarda la possibilità di avere orari di lavoro più flessibili per i genitori con figli piccoli (oltre il 60%). È interessante notare come tale misura sia indicata come prioritaria da oltre il 20% delle donne intervistate in Liguria, una percentuale nettamente più elevata rispetto alla quota di preferenze assegnate al part-time (meno del 10%): ciò sembra confermare che la dinamica demografica di bassa natalità sia connessa a vincoli di bilancio famigliare percepiti come fortemente stringenti, tali per cui la decisione di mettere al mondo un figlio (e di crescerlo) non può prescindere dalla possibilità di mantenere il lavoro (tra le donne giovani la misura indicata di gran lunga come preferita consiste nell’avere migliori possibilità di aspettativa lavorativa in caso di maternità –
23,2% in Liguria) ma anche dalla possibilità di mantenere un monte ore, e cioè un livello di reddito, “pieno”.

Conclusioni
Gli elementi conoscitivi sinteticamente qui riportati mostrano come tra le famiglie di recente formazione i vincoli alla scelta di avere un figlio sono connessi al rischio percepito di un peggioramento della propria condizione economico-finanziaria; tuttavia, nelle percezioni delle donne, tale peggioramento sembra essere legato non tanto, o non solo, agli effettivi costi materiali direttamente imputabili a un figlio da crescere (alimenti, asilo nido, scuola, ecc.) quanto piuttosto a più ingenti costi-opportunità di rinuncia al lavoro da parte delle neomadri, scelta peraltro tendenzialmente percepita come difficilmente reversibile, con il conseguente venir meno in famiglia di una determinante fonte di reddito.
Per questo motivo la leva fondamentale per risollevare la fecondità sembra da individuarsi in una forte interazione sinergica tra politiche del lavoro e politiche sociali, che consenta di adottare adeguate misure di occupabilità e stabilità lavorativa al fine di dare alle famiglie più sicurezza economica.
Inoltre, in merito alle risposte del sistema di welfare, sebbene le opzioni di autoaddossamento familiare e di ricorso al mercato privato informale per le problematiche di assistenza in relazione ad eventi critici (bambino piccolo da accudire/presenza di un anziano non autosufficiente) siano consistentemente rilevanti, le opinioni espresse rispetto al ruolo dei servizi pubblici lasciano intravedere come la tradizionale delega del care alle famiglie da parte del sistema pubblico di welfare, non sia del tutto giustificata o giustificabile da una valorizzazione del ruolo della famiglia tipica della realtà culturale italiana, ma al contrario rappresenti una carenza importante rispetto ai livelli di erogazione attesi da parte delle famiglie stesse.


Bibliografia
- Gregori E., 2006, Strategie di vita familiare. Survey su due coorti di donne liguri, Milano, Franco Angeli.
- Mauri L., (a cura di), 2007, Il sistema informativo sociale. Una risorsa per le politiche pubbliche di welfare, Milano, Franco Angeli.
- Mauri L., Gregori E., 2005, “Bisogni sociali e strategie familiari. Un modello di indagine”, in La Rivista delle Politiche Sociali, N.4, pp. 319-330.
- Mauri L., Billari F.C., (a cura di), 2004, Dinamiche familiari e bisogni sociali. Survey sociodemografica in Alto Adige, Milano, Franco Angeli.
- Mauri L., Billari F.C., (a cura di), 1999, Generazioni di donne a confronto. Indagine sociodemografica in Friuli-Venezia Giulia, Milano, Franco Angeli.
- Mauri L. (a cura di), 1993, Equilibri. Persistenze e mutamenti nella famiglia in un'area piemontese, Milano, Franco Angeli.
- Mauri L., May M.P., Micheli G.A., Zajczyk F., (a cura di), 1992, Vita di famiglia. Social survey in Veneto, Milano, Franco Angeli.

 

 

 

 

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