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GENERAZIONE Z NEL NORD ITALIA

A cura di Matteo Barbieri, Anisoara Cerniciuc e Luca Pirona. Dalla rubrica "Lavori di ricerca empirica" degli studenti dell'Università di Pavia per il corso di Statistica Sociale
“Generazione Z” Quante volte ci siamo imbattuti in quest’espressione! L’abbiamo sentita in radio, durante un viaggio in macchina, in televisione, mentre ascoltavamo il notiziario, l’abbiamo letta in un articolo sfogliando un giornale o su qualche pagina del Web.
 
Ma capiamo meglio di cosa stiamo parlando. 
Se vogliamo dare una definizione puramente tecnica, possiamo affermare che questa generazione comprende i nati tra il 1997 e il 2012. Se volessimo dare una definizione più umanistica, invece, dovremmo dire che i componenti della “Gen Z”, come la si suole chiamare di recente, sono i veri nativi digitali, coloro che sono nati dopo l’invenzione del Web e la cui vita è quasi o sempre stata influenzata dalla presenza di Internet e delle nuove tecnologie. Sono individui che hanno ben poco in comune con i propri genitori e ancor meno con i propri nonni, contraddistinti da valori come la tolleranza, l’inclusività e l’attenzione per temi di carattere socio-ambientale. 
 
Essendo figli della generazione X, questa fetta di popolazione sta iniziando a costruire una parte importante della forza lavoro, rivoluzionando, per certi versi, il disegno tradizionale della stessa. 
L’obiettivo di questa ricerca è proprio quello di investigare quali sono le aspettative e le intenzioni dei nuovi e futuri lavoratori e capire come permettere loro di rispecchiarsi nel mondo del lavoro. 
 
L’integrazione dei giovani nel mondo del lavoro è più difficile ora di quanto non lo sia mai stata, perché deve scontrarsi da un lato con l’ansia e l’incertezza umana, e dall’altro con l’ambizione e la schiettezza di persone che vogliono arrivare, senza sapere dove. 
Questa generazione è meno preparata delle altre a scontrarsi con periodi di stress e di agitazione, per questo, spesso e volentieri i giovani tendono ad evitare la comunicazione o ad affrontarla in maniera ampiamente inadeguata. 
Un esempio di questo aspetto è, la mancata paura di licenziarsi: se un ventenne pensa di meritarsi un aumento di stipendio, non è improbabile che invece di domandare quell’aumento, egli preferisca andarsene, convinto che il proprio impegno non sia valorizzato. 
 
Ciò emerge in maniera piuttosto evidente anche dai dati ottenuti dal nostro campione raccolto nelle regioni dell’Italia settentrionale. 
Il 33,33% degli intervistati, dichiara che un salario troppo basso o l’offerta di una retribuzione maggiore sarebbero una motivazione sufficiente per dare le dimissioni, mentre un altro 34,34% sarebbe disposto a rinunciare al proprio impiego se quest’ultimo non dovesse soddisfare le aspettative. 
Da un lato potremmo credere che questi siano risultati positivi e incoraggianti, che mettono in luce la determinazione con cui i giovani vogliono far sentire la propria voce e far pesare le proprie necessità. D’altro canto però, ci possiamo chiedere se questi numeri non siano prova di una massiccia inconsapevolezza di studenti e lavoratori alle prime armi, che di fatto del mondo del lavoro sanno ben poco. 
 
È qui che secondo noi dovrebbero entrare in gioco le aziende, contribuendo allo sviluppo delle competenze umane oltre che lavorative, insegnando a questa generazione così impulsiva e al tempo stesso spaventata ad interfacciarsi con il confronto e con le critiche, ad aspettare che il proprio lavoro inizi almeno a germogliare prima di gettare la spugna, e a chiedere aiuto quando ne se ne senta la necessità. 
Dal nostro punto di vista, in quanto individui appartenenti a questa generazione, è fondamentale che le aziende comprendano che siamo persone prima di essere lavoratori, pertanto, non tolleriamo che aspetti come salute mentale, flessibilità e scopo del lavoro vengano trascurati. 
 
Come dimostrano i nostri dati, la maggioranza degli intervistati, benché si tratti di individui giovanissimi (il 50,71% ha meno di 20 anni) e perlopiù studenti (82,14%), sente di possedere qualità adeguate a entrare nel mondo del lavoro, purché le stesse vengano sviluppate e perfezionate sul posto di lavoro. 
Alla domanda “Ritieni che le tue competenze attuali siano adeguate a soddisfare le esigenze di un futuro lavoro?”, il 66,78% ha risposto positivamente. 
Tuttavia, quando abbiamo interrogato il campione in merito alla preferenza di lavorare all’estero, 
Il 95% si è dimostrato favorevole ad accettare un lavoro in Italia che permetta di fare esperienze lavorative all’Estero, e il 65% ha dichiarato di aver preso in considerazione la possibilità di trasferirsi in un altro Paese per perseguire i propri obiettivi professionali. 
Le ragioni più comuni che si nascondono dietro a tali affermazioni sono legate alla retribuzione, considerata troppo bassa in Italia, e alle opportunità di fare carriera, che, secondo un parere comune, negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa Settentrionale, sono più attrattive, oltre che più prospere. 
 
Intuiamo, così, che molti giovani Italiani ripongono poche speranze nel proprio Paese, ma siamo abbastanza ottimisti nel dire che con qualche cambiamento, non tutto è perduto.
 
A nostro avviso le aziende dovrebbero iniziare questo percorso di transizione innanzitutto perseguendo una performance sostenibile, dal punto di vista sociale quanto ambientale per non portare al burnout le persone che lavorano. 
Questo è diventato importante soprattutto dopo la pandemia, che ha aperto una riflessione sul benessere sul posto di lavoro e sulla serietà della salute mentale, un argomento al quale, fino ad allora, era stata attribuita forse troppa poca importanza.
Il 100% degli intervistati concorda con il fatto che sia essenziale riservare un’attenzione speciale al tema della salute mentale sul lavoro per conseguire un buon equilibrio tra vita privata e lavorativa. Per il 91,78%, infatti, una vita equilibrata è una top priority nella ricerca di un impiego. 
Alcuni elementi determinanti ai fini di questo bilanciamento sono la flessibilità degli orari, la possibilità di smart-working, l’incentivo tramite benefit e vantaggi per i lavoratori e un buona comunicazione con i propri superiori. 
 
In merito a ciò, crediamo che le imprese possano e debbano prendere provvedimenti e pensiamo che lo strumento più adeguato per convincere questa generazione sia la tecnologia. 
Come dimostra la nostra analisi, il 44,4% pensa che le nuove tecnologie stiano contribuendo ad incrementare l’occupazione creando nuove mansioni e il 75% ritiene che queste nuove mansioni, rispetto a quelle tradizionali, siano più stimolanti e adattabili alle proprie esigenze professionali.
 
La pandemia ci ha insegnato che lavorare da casa è possibile, pertanto, non dovrebbe essere difficile lasciare la libertà di gestire il proprio tempo e il proprio lavoro in maniera compatibile al proprio benessere, tramite il ricorso alla modalità di lavoro ibrido. 
 
Bisognerebbe inoltre costruire un sistema in cui i lavoratori più giovani possano vedere nel proprio leader un’opportunità di crescere piuttosto che una persona dalla quale essere controllati. 
 
La Gen Z vuole essere coinvolta nell’impresa, non subordinata ad essa. I nuovi lavoratori sono, infatti più propensi a lavorare in aziende che impongono meno regole e che sono brave a creare e a spiegare un contesto i cui obiettivi siano chiari e stimolanti. Questo è dovuto al fatto che la nuova generazione sente la necessità di cambiare le regole del gioco per sentirsi parte di una missione, creando un impatto su qualcosa in cui crede. 
Sebbene i nostri dati dimostrino che l’aspetto finanziario sia “importante” nel 40,4% dei casi e “fondamentale” nel 58,2%, alla domanda “È più importante un lavoro stimolante o un lavoro ben pagato?” Più della metà degli intervistati ha risposto “stimolante”. 
Stiamo dicendo che per la generazione Z, il lavoro è molto più di una sorgente di denaro, pertanto nel momento in cui viene scelto, particolare attenzione viene rivolta al rispetto dei diritti e valori personali, all’utilità sociale e alla sostenibilità ambientale. 
 
L’Italia purtroppo è un Paese più propenso alla tradizione che all’innovazione. Tuttavia è anche vero che se qualcuno inizia a intraprendere un percorso diverso, il cambiamento è possibile. Abbiamo la sensazione che la generazione Z sarà il momento di rottura positivo che permetterà questa trasformazione. 
 

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