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Some frailties of the Italian child protection system

by Rebecca Zanuso

[Mutamento Sociale n.30 - Gennaio 2011]

Recent research implemented by Synergia within the framework of European-funded projects, in collaboration with Associazione Amici dei Bambini, highlighted some drawback of the Italian child protection system. The first problem regards time in care, which is often longer than what legislation foresees and not used for effective actions. The time of diagnosis can be too long compared to the fast changes occurring in the life of the child, also due to Judicial system procedures. Families of origin are poorly supported and the evaluation of their parental skills needs further investment. Networking and real integration between services is key to the success of the protection and care path.

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Da recenti lavori di ricerca svolti sul territorio italiano nell’ambito di progetti europei finanziati sulle linee Daphne e Fundamental rights and citizenship e svolti in collaborazione con Associazione Amici dei Bambini emergono alcune fragilità di sistemi, pur avanzati, di tutela all’infanzia, di cui tracciamo qui di seguito le principali caratteristiche.
Le permanenze dei minori nelle strutture residenziali durano spesso più dei due anni previsti dalla legge nazionale di riferimento. Uno dei problemi che stanno alla base di questo fenomeno è costituito dallo scarso investimento nella prevenzione, con le segnalazioni di situazioni di disagio che arrivano troppo tardi, quando ormai il minore è in una condizione di emergenza e con una situazione già molto deteriorata. Si rileva una forte difficoltà a valutare la qualità della relazione con i genitori, ossia a decidere se una famiglia di origine sia in grado o meno di rispondere ai bisogni del proprio figlio, difficoltà che porta naturalmente a rimandare le decisioni su un possibile reinserimento in famiglia e a prolungare la permanenza del minore in carico.
Il problema non è solo il tempo cronologico (Kronos), che con il suo scorrere può trattenere più a lungo del necessario il minore in una condizione di provvisorietà, ma anche l’aspetto qualitativo del tempo (Kairos), caratterizzato dal fare o non fare degli attori istituzionali coinvolti. L’analisi di una situazione può essere vissuta in modo dinamico per gli operatori, ma può essere, al contempo, molto lunga e frustrante per il bambino e per la sua famiglia.
Sempre relativamente alla questione del tempo, non possiamo non riportare il problema, rilevato da più parti, del carico di lavoro dell’autorità giudiziaria, che rallenta il processo burocratico e crea forti lungaggini. In particolare i tempi dei decreti sono troppo lunghi, tanto da entrare in sensibile conflitto con la tempistica prevista dai progetti individualizzati.
Passando poi dalla segnalazione alla progettazione, lo scollamento tra tempi di evoluzione del minore e tempi di presa in carico (diagnosi e prognosi) è in cima alla lista delle criticità. E’ difficile disporre di uno strumento che permetta di effettuare una diagnosi e un progetto accurati, dato che la situazione si evolve continuamente: nel momento stesso in cui si realizza la diagnosi, il processo di mutamento è comunque attivo e quando si crede che l’iter previsto dalla progettazione sia completato, nel frattempo le cose sono mutate e la diagnosi deve essere necessariamente adattata a questo mutamento. Il danno che la mancanza di coerenza tra tempi di diagnosi e prognosi e tempi di evoluzione del minore gli provoca sarebbe quantomeno ridotto se i tempi di diagnosi non venissero eccessivamente espansi per motivi organizzativi non legati alla accuratezza della diagnosi stessa e se la revisione dei progetti individualizzati avvenisse in maniera sistematica e a cadenze temporali ravvicinate.
I progetti dovrebbero inoltre essere condivisi con il minore e la sua famiglia di origine (in caso di affido, anche con la famiglia affidataria). La partecipazione della famiglia di origine e del minore sono invece spesso solo formali o addirittura inesistenti. Difficilmente il piano individualizzato, che dovrebbe essere messo per iscritto, viene consegnato e discusso insieme al minore, alla sua famiglia di origine, alla famiglia affidataria (che riceve anche insufficienti informazioni sul minore, oltre che un supporto economico generalmente scarso). Al contrario, la comunicazione al bambino, ai responsabili dell’accudimento e ai titolari della potestà genitoriale e, non ultima, l’acquisizione della loro collaborazione sono elementi chiave del successo di un percorso di protezione e cura. A tal fine, la comunicazione e il coinvolgimento da parte dei servizi dovrebbero utilizzare forme, linguaggi, luoghi e tempi adeguati alle capacità di ascolto e al rispetto delle esigenze dei diversi soggetti coinvolti.
Le criticità legate alla fase di monitoraggio e valutazione del progetto sono riconducibili principalmente a questioni di metodo: si percepisce una carenza di strumenti, l’assenza di un modello scientifico di riferimento comune e di competenze specifiche, oltre che, ovviamente, la difficoltà, ancora una volta legata al tempo e al sovraccarico lavorativo degli operatori dei servizi, di ricavare momenti per svolgere tale attività.
Il sostegno alla famiglia di origine è uno dei punti più deboli del sistema di presa in carico. La verifica delle risorse residue del nucleo e del recupero delle competenze genitoriali emergono come le aree maggiormente trascurate, essendo caratterizzate da una valutazione “soggettiva” e non basata su indicatori espliciti e condivisi. Anche se la maggioranza dei professionisti ritiene che si debba sempre tendere verso l’obiettivo del recupero delle competenze genitoriali, tale fine non è per tutti scontato. Né è chiaro se le comunità per minori debbano giocare un ruolo chiave o meno rispetto al recupero delle competenze genitoriali, aspetto sul quale, ancora, troviamo discreta difformità di pareri.
Un lavoro integrato tra servizi di base e specialistici è l’ultimo aspetto che vale la pena citare in questo articolo, che non può, per questioni di spazio, esaurire tutte le problematiche riscontrate sul campo. Il lavoro di rete è un modo di intervenire molto difficile da perseguire, ma rappresenta anche la parte più “produttiva” del lavoro dell’operatore. Se si riuscisse a realizzare una vera integrazione (o almeno una proficua collaborazione) tra servizi sociali, comunità, famiglie affidatarie e servizi non direttamente connessi con il sistema di presa in carico (quindi il pediatra, il medico di base, la scuola, ecc.), le situazioni di emergenza verrebbero segnalate con una maggiore tempestività, eliminando almeno in parte quei problemi legati al tempo di cui abbiamo precedentemente parlato ed i progetti sarebbero realmente individualizzati, in quanto più in linea con i punti di forza e di debolezza del nucleo familiare, del minore e di tutto il suo sistema di relazioni, sulle cui risorse i progetti potrebbero quindi più facilmente appoggiarsi.

 

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