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Synergia Magazine

Diventare madri nella società della scelta. Fattori socio-culturali e questioni aperte.

di Rebecca Zanuso
Mutamento Sociale n.26 - Marzo 2010

E’ noto come il modello di riproduzione sociale italiano ad alta intensità affettiva e di risorse spinga i giovani – soprattutto di sesso maschile - ad una più lunga permanenza nella famiglia di origine, dove godono del massimo accudimento e della massima autonomia. Oltre all’uscita da casa anche la stabilizzazione della coppia e la filiazione vengono spesso rimandate al momento in cui ci si sente pronti, poiché si sono ormai indebolite le regole sociali sull’ “età giusta” per avere il primo figlio. Inoltre sulla scelta di posticipare la procreazione sembrano gravare non solo difficoltà oggettive (contrazione di tempo e risorse individuali, assottigliamento degli aiuti informali), ma anche la percezione dei figli come un restringimento dell’orizzonte esistenziale, soprattutto per le giovani donne. 

Quali sono dunque i fattori sociali e culturali che incidono sulla scelta di “metter su famiglia” e che portano alla posticipazione dei principali eventi caratterizzanti le transizioni alla vita adulta ed in particolare il passaggio al primo figlio e il (non passaggio) dal primo al secondo figlio?

La complessità del fenomeno oggetto di studio si è tradotta in una ricchezza di pubblicazioni di natura teorico-analitica sul tema, di cui si riportano di seguito alcune tra le questioni principali emerse dalla letteratura degli ultimi anni (1).

Tra i principali fattori che incidono sulle attuali intenzioni riproduttive delle giovani coppie il cambiamento dei valori sembra rivestire un ruolo fondamentale: la maternità (e la paternità) non è oggi più concepita come un destino, ma è una decisione personale consapevole, nell’ambito di biografie, soprattutto femminili, decisamente meno rigide di un tempo.

L’attuale cambiamento non interessa solo i valori, ma anche la percezione dei figli, ritenuti onerosi non solo in termini monetari, ma anche psicologici, di salute, di realizzazione nel lavoro, di perdita di tempo libero, di stress da performance. La visione perfezionistica della maternità sembra contribuire a creare insicurezza nelle future madri e incidere sulla decisione di ritardare il concepimento del primo figlio, decisione che viene peraltro frenata, secondo alcuni, soprattutto dagli uomini. Non è infrequente che tali ritardi si trasformino poi in rinunce, a causa della riduzione della fertilità della donna con l’avanzare dell’età.

Iniziano comunque ad emergere anche le rinunce consapevoli in una società, quella della scelta, che non le condanna più. Accanto a termini che indicano un’assenza di figli generica (childless in inglese) sono comparse recentemente anche espressioni come child-free, termine che indicherebbe il nuovo fenomeno – ancora minoritario in Italia - delle donne senza figli per scelta. Provocatorio a questo proposito è il recente testo della filosofa francese Elisabeth Badinter che teorizza come il vero ostacolo alla parità tra i sessi non sia tanto il sessismo, quanto la maternità – laddove venga intesa nei termini performativi imposti dalla società - che impedirebbe alle donne di trovare il tempo e le energie per realizzare le proprie aspirazioni e raggiungere anche l’autonomia economica.

Una scelta meno radicale rispetto a quella child-free, ma comunque legata al mutato contesto socio-culturale e oggi molto diffusa in Italia, è rappresentata dalla procreazione di un unico figlio dopo i trent’anni, che sembra rappresentare un efficace compromesso tra fare famiglia e conservare tempi e spazi, sia individuali che per la coppia. Le nascite di secondo ordine sono più probabili tra le casalinghe e le insegnanti, mentre per le madri lavoratrici i progetti si ridimensionano quando si scontrano con le difficoltà concrete del vivere quotidiano.

Sia la letteratura, sia i dati empirici mostrano come la questione della conciliazione lavoro-famiglia sia centrale per molte donne, soprattutto rispetto alla decisione di passare dal primo al secondo figlio. Le strade teoricamente percorribili per uscire dal conflitto tra il ruolo di donna lavoratrice e madre sono due: o un passo indietro ad un sistema ineguale per genere (con un ritorno al modello tradizionale del male breadwinner, evidentemente una tesi provocatoria), o un deciso avanzamento proprio nel sistema di equità di genere, soprattutto nelle istituzioni legate alla famiglia, combinato con trasformazioni anche delle condizioni di lavoro, con una assunzione di responsabilità nei confronti della famiglia anche da parte del mondo delle aziende. In quest’ottica la necessità di attivare politiche e strategie che supportino i giovani nel raggiungimento di una autonomia economica ed abitativa assume ancora maggiore attualità e rilevanza.

Strettamente legato alla possibilità di conciliare il lavoro e la famiglia, soprattutto per le donne, è il tema dell’asimmetria dei ruoli di cura dei figli tra madre e padre. Nonostante cominci ad essere percepibile il cambiamento di atteggiamento dei padri, sempre più partecipi della vita della famiglia, tale asimmetria persiste.

E’ forse giunto il momento che la maternità esca dalla sfera privata e diventi un tema di interesse (e non di condizionamento) sociale. Nell’affrontare la maternità come un difficile processo individuale, infatti, le donne perdono anche il senso dei loro diritti e viene dimenticata la dimensione collettiva che i problemi sopra citati hanno e che dovrebbe essere quella da assumere come la più legittima ed efficace nella ricerca di soluzioni.


Note
(1): Questo articolo prende spunto da una recente ricerca svolta da IReR con la collaborazione di Synergia, per conto di Regione Lombardia.


Bibliografia
Badinter, E. (2010), Le conflit. La femme et la mère,  Ed. Flammarion, Parigi
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Vegetti Finzi, S. (1997), Volere un figlio. La nuova maternità tra natura e scienza, Mondadori, Milano
Volpi, R. (2007), La fine della famiglia. La rivoluzione di cui non ci siamo accorti, Mondadori, Milano
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