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L’Impatto dell’Etica sul Brand

Di Ilona Ciobanu, Luca Corbellini, Valeria Cozzatelli, Chiara Faggiano. Dalla rubrica "Lavori di ricerca empirica degli studenti dell'Università di Pavia per il corso di Statistica Sociale
Negli ultimi anni, a livello di dibattito pubblico, ha assunto una sempre maggiore rilevanza il tema dell’inquinamento. Le generazioni più giovani, spaventate dal futuro che le potrebbe aspettare sono anche scese nelle strade a manifestare contro il cambiamento climatico e l’inquinamento ambientale causato dall’abbandono di rifiuti e l’eccessivo utilizzo che l’uomo fa della plastica, materiale difficilmente smaltibile e pertanto altamente inquinante.
Attraverso uno studio, condotto durante il corso di Statistica Sociale dell’Università degli Studi di Pavia si è voluto andare a verificare quanto questo desiderio di cambiamento sia effettivamente sentito dalle persone, e se quanto espresso sui cartelli durante le manifestazioni si traduca in azioni reali e concrete nella vita quotidiana.
Lo studio effettuato ha preso in considerazione in particolare il settore dell’abbigliamento, di cui spesso si trascurano e si sottovalutano gli effettivi rischi e danni che questo può causare all’ambiente.
La maggior parte degli indumenti di oggi sono infatti realizzati con materiali sintetici, soprattutto poliestere, che, essendo un composto della plastica, non si degrada dopo lo smaltimento. Il cotone e altre fibre naturali a base di cellulosa vegetale invece si degradano dopo lo smaltimento, ma sono anch’esse altamente inquinanti; infatti, per la coltivazione del cotone sono necessarie enormi quantità di pesticidi, fertilizzanti e acqua, inoltre il cotone, per essere lavorato richiede più energia dei materiali sintetici.
Il problema principale nel primo caso è che i vestiti, essendo fatti di materiali scadenti hanno anche una vita più breve, dunque richiedono di essere smaltiti sempre più spesso, e questo ha un enorme impatto sull’ambiente in cui viviamo.
Lo studio di statistica sociale è stato condotto attraverso un questionario anonimo realizzato con Google Form ed è stato condiviso tramite WhatsApp, Facebook e e-mail. Tramite il questionario sono state ottenute un totale di 175 risposte, con un campione composto per il 62,9% da donne e il 36% da uomini (l’1,1% ha scelto l’opzione di non rispondere).
Il primo obiettivo è stato quello di capire quanto gli individui si ritengono consapevoli dell’impatto ambientale della produzione di abbigliamento e se questa consapevolezza possa variare in base a determinati fattori socio-demografici come luogo di residenza o condizione professionale. I risultati hanno mostrato che l’associazione è prossima allo zero, quindi non vi è una relazione di dipendenza tra questi fattori socio-demografici e la consapevolezza, anche se bisogna specificare che la rilevanza statistica di questi dati è moderata in quanto il 67,4% del campione proviene dal Nord Italia e il 92% sono studenti. In secondo luogo è stato studiato se vi potesse essere una relazione tra la consapevolezza, dichiarata dal campione, riguardo al reale impatto che la produzione ha sull’ecosistema e quanto il campione ritiene inquinanti i tessuti (materiali sintetici e fibre naturali) utilizzati per la produzione di abbigliamento.
Tramite il calcolo dell’apposito indice è possibile affermare che vi è un’importante relazione tra chi si dichiara consapevole e chi ritiene altamente inquinanti i materiali sintetici (nello specifico, i materiali sintetici si ritengono inquinanti al 58%). Ciò non accade nel caso delle fibre naturali, le quali vengono ritenute inquinanti solo al 7%. Questo evidenzia una consapevolezza distorta del campione in quanto, come affermato inizialmente entrambi i tipi di tessuto sono altamente inquinanti (se si considerano le fibre naturali non di origine biologica).
È stato infine testato se la sostenibilità sia determinante nelle scelte di acquisto del campione: coerentemente con le aspettative è stata rilevata un’importante associazione positiva tra chi reputa che l’adozione di iniziative sostenibili da parte di un brand ne possa aumentare la reputazione e chi sarebbe disposto a scegliere un prodotto sostenibile, anche se più costoso di uno non sostenibile.
È anche vero però che chi sarebbe disposto a spendere di più lo farebbe soltanto per cifre molto moderate; infatti, supponendo di sostituire l’acquisto di una maglietta non sostenibile al prezzo di 10 euro, con una sostenibile, la quasi totalità del campione sarebbe disposta a pagare solo fino a 5 euro in più, la disponibilità diminuisce se la somma aggiuntiva è compresa tra i 5 euro e i 10 euro e si annulla quasi del tutto se l’aggiunta dovesse essere superiore al 10 euro.
Questa disponibilità sembra però non essere collegata alla disponibilità a pagare delle famiglie (facendo riferimento alla fascia di reddito di appartenenza).
Verificando infatti se ci potesse essere una relazione tra l’importanza attribuita alla sostenibilità e la fascia di reddito o il livello di istruzione i risultati hanno mostrato inaspettatamente che anche in questo caso il livello di associazione è prossimo allo zero.
In conclusione, possiamo dire che in gran parte dei risultati è evidente che il tema sia abbastanza importante e sentito: le persone si dichiarano disponibili, nel proprio piccolo, a cambiare ciò che è ordinario al fine di preservare l’ambiente, a partire dalle generazioni più giovani e a prescindere da caratteristiche economico-sociali che potrebbero condizionare la domanda di mercato. Ciò che principalmente frena a livello pratico questa loro intenzione sono principalmente i prezzi dei capi sostenibili, ritenuti troppo elevati, e la difficoltà di reperimento degli stessi. I due fattori sono strettamente collegati in quanto la produzione di fibre naturali ecosostenibili è molto più costosa, e questo scatena un aumento del prezzo di vendita del bene finale. È quindi un circolo vizioso che porta il consumatore a privilegiare l’opzione di avere sempre nell’armadio vestiti nuovi e poco costosi, anziché acquistare capi ecosostenibili.

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