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Synergia Magazine

Perchè fare ricerca sociale

di Rebecca Zanuso
Mutamento Sociale n.1 - Luglio 2004

Agire non basta, anzi: l'agire disinformato rischia di provocare danni e va nella direzione opposta di quella che conduce alla qualità sociale. Bisogna prima di tutto costruire l'opportunità di formulare scelte percorribili e discuterle. Questa è vera libertà. Per prendere decisioni, orientare la progettualità indirizzata alla sfera sociale, valutare processi e risultati di interventi, occorre conoscere il fenomeno in analisi, individuare i legami tra le variabili che lo condizionano, trovare l'opzione che più direttamente ed efficacemente consente di perseguire un determinato obiettivo. Maggiore l'incertezza, la superficialità della conoscenza della situazione, più elevata la probabilità di arroccarsi sulle posizioni del sapere consolidato e di adottare soluzioni rigide e standardizzate. Ciò riduce i margini di rilettura delle soluzioni adottate e vincola l'organizzazione a prassi poco flessibili, per nulla adatte al dinamismo del mutamento sociale.

La ricerca sociale, termine che si intende qui come approccio necessariamente multidisciplinare, si occupa di mettere in connessione fenomeni, alimentare dubbi e opinioni, esplorare nuovi campi di intervento nei quali quanto attuato fino a quel momento risulta per nulla o poco efficace (si pensi ad esempio alla gestione delle tossicodipendenze, alle politiche d'integrazione dell'immigrazione, ma anche alle nuove modalità di 'fare famiglia'). La conoscenza prodotta dalla ricerca aiuta nella comprensione, nella rappresentazione e nella problematizzazione della realtà, sistematizzando e ordinando gli elementi che compongono una questione sociale, interpretando la complessità dei fenomeni, ma contemporaneamente mettendo in dubbio 'il senso comune' e gli stereotipi, in un circolo virtuoso dove teoria ed esperienza si alimentano a vicenda.

O almeno così sarebbe se il passaggio ricerca-interpretazione-azione fosse lineare e sistematico. Ed è qui che entrano in gioco gli attori: i ricercatori, gli operatori dei servizi, gli amministratori, ciascuno portatore di propri valori e istanze, di una determinata cultura organizzativa. Il rischio è che i primi non ottemperino alla responsabilità intellettuale, morale e politica di esplicitare tutte le opzioni di intervento possibili che emergono dalla ricerca svolta, prima di indicare la propria preferenza per una determinata azione, o che addirittura eliminino la contradditorietà dell'oggetto di analisi, piegandosi a logiche burocratiche e ideologiche; che non siano in grado di capire le esigenze di policy, avvicinarsi al territorio e finalizzare la ricerca, ma si limitino piuttosto a usare quest'ultima per accreditarsi all'interno della comunità scientifica.

Contemporaneamente accade che operatori e politici, occupandosi di affermare la propria professionalità e di rispondere ad una molteplicità di interessi e di domande di alcune tipologie di utenti ed elettori più che dell'efficacia dei loro interventi, utilizzino la ricerca solo come strumento per la comunicazione sociale, limitandosi ad annunciare di averla commissionata, anziché usarne davvero i risultati.

La connessione tra ricerca e azioni di policy è invece lo snodo chiave di cui occuparsi, lo strappo che va ricucito. Bisogna immaginare forme di coinvolgimento, comunicazione e restituzione delle analisi fatte che valorizzino tutti gli attori che nel concreto garantiranno la traduzione della conoscenza in azione, così che l'apporto conoscitivo inneschi meccanismi di apprendimento istituzionale e di miglioramento della qualità. Lavorare realmente con i policy maker, senza per questo perdere autonomia intellettuale o rigore scientifico, deve diventare la priorità di chi opera nel campo della ricerca sociale applicata.

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