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Lo smart working, o lavoro agile, è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato che permette un alto livello di flessibilità rispetto all’orario e al luogo di svolgimento del lavoro stesso. In Italia è disciplinato dalla Legge 81 del 22 maggio 2017. L’obiettivo coinvolge sia i datori di lavoro che i dipendenti: l’idea è quella di incrementare la produttività e, allo stesso tempo, di agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Il settore privato costituisce una ricca fonte di esempi di “agilizzazione” dell’organizzazione lavoro; recentemente il tema dello smart working è entrato anche nell’agenda delle Pubbliche Amministrazioni, con l’emanazione della legge 124/2015 e la successiva stesura delle linee guida nella direttiva Madia del 2017. Ciò significa che, potenzialmente, tutti i lavoratori delle amministrazioni pubbliche possono diventare smart workers, fatto salvo lo svolgimento di alcune attività incompatibili con il lavoro a distanza (Legge 191/1998). Il target della legge Madia è di garantire in tre anni una modalità di lavoro flessibile, consistente nello smart working o nel più tradizionale telelavoro, ad almeno al 10% dei lavoratori del pubblico impiego che ne fanno richiesta. La diffusione dello smart working come obiettivo genera una serie di spinte al cambiamento, alle quali le pubbliche amministrazioni, che a ciò sono tenute ai sensi del D.Lgs. 165/2001, devono approcciarsi. Le linee guida contenute nella Direttiva PCM numero 3 del 1 giugno 2017, richiedono di definire un preciso percorso di introduzione e implementazione di questa forma di flessibilità. Le tappe che non possono mancare in questo percorso sono la definizione di un modello organizzativo centrato su obiettivi e risultati, la mappatura dei bisogni dei dipendenti, l’identificazione delle attività compatibili alla modalità di lavoro agile, il coinvolgimento dei Comitati Unici di Garanzia, la formazione. All’interno della Pubblica Amministrazione, ogni contesto presenta però le proprie peculiarità in termini di funzioni, organizzazione, dimensioni, spazi a disposizione, caratteristiche dei dipendenti. Di conseguenza, assisteremo allo sviluppo di più modelli differenziati di lavoro agile, in base alle caratteristiche che meglio si sposano con il caso specifico.
Proponiamo di seguito una overview su 3 casi studio affrontati da Synergia nell’ambito di un corso di formazione FORMEL sullo smart working, a cui hanno partecipato referenti di tre diverse organizzazioni pubbliche: l’Università degli studi di Palermo, la Città Metropolitana di Torino e l’Azienda Sociale Comuni Insieme; tre casi organizzativi diversi e per molti aspetti lontani tra loro, accomunati però dall’interesse a sviluppare al proprio interno un modello di lavoro agile.
L’UniPa rappresenta una realtà che ha già riflettuto sul progetto di introduzione dello smart working nella propria realtà, basandosi sulle linee guida contenute nel decreto. Il percorso tracciato ha definito la struttura nella quale verrà svolta la sperimentazione, cioè quella parte di amministrazione che si occupa dei servizi informatici, come per esempio software di gestione della carriera studenti e del personale. Questa struttura è stata considerata particolarmente compatibile con lo smart working poiché comprende operazioni facilmente eseguibili da remoto. Il personale coinvolto riceverà una formazione riguardo questa nuova modalità di esecuzione del rapporto di lavoro: quali saranno per loro i termini, gli obiettivi, le responsabilità, i vincoli che derivano da questa nuova flessibilità?
Contestualmente, è necessario fare una mappatura dei bisogni di queste persone, non casualmente, ma secondo una metodologia precisamente definita. La tecnica sarà scelta principalmente sulla base del numero di persone coinvolte: con un gruppo ristretto si può procedere ad un’analisi approfondita dei bisogni attraverso focus group o interviste; la situazione contraria si presta meglio alla stesura e somministrazione di un questionario. Questa fase, a prescindere dalla metodologia, ha come obiettivo quello di identificare gli elementi su cui definire lo smart working, per favorire la conciliazione tra vita e lavoro.
Infine, è necessario riprogettare l’organizzazione del lavoro in vista dello svolgimento dello smart working. Da una parte, ciò significa decidere come strutturare la settimana lavorativa e quante fasce orarie rendere agili. Su questo punto, l’Università degli studi di Palermo, nel caso dell’area individuata per la sperimentazione, ha già definito un preciso quadro: i dipendenti lavoreranno quattro giornate da sei ore nella loro sede; una giornata da sei ore senza vincoli di luogo ma con reperibilità in alcune fasce orarie, condizione che identifica questo momento come forma di telelavoro; il vero e proprio smart working è invece rappresentato da sei ore lavorative, che il dipendente svolge quando e dove preferisce. È comunque necessario verificare se questo piano sia compatibile e coerente con i bisogni dei lavoratori che emergono dalla mappatura svolta. Dall’altra parte, riprogettare l’organizzazione del lavoro significa anche ridefinire i processi per obiettivi, in vista della responsabilizzazione del lavoratore verso un risultato atteso. L’introduzione di questa nuova logica implica un cambiamento della cultura organizzativa delle pubbliche amministrazioni e costituisce pertanto uno nodo cruciale nelle sperimentazioni di smart working.
Il progetto della Città Metropolitana di Torino sullo smart working, è ad oggi all’inizio di una fase di strutturazione e in corso di definizione rispetto al caso appena illustrato. Con il contributo dei partecipanti e con l’accompagnamento del docente, è stato pianificato un percorso di introduzione dello smart working anche in questa amministrazione pubblica. Il punto di partenza è rappresentato dalla mappatura dei bisogni, con un’attenzione particolare ai casi di lavoratori con esigenze specifiche, quali part-time, Legge 104/92, D.L. 151/01. Su questo fronte è necessario verificare anche quali siano le esigenze dei datori di lavoro nei confronti di queste categorie, per evidenziare le sovrapposizioni e le compatibilità. È particolarmente interessante, capire se lo smart working possa essere uno strumento di empowerment per queste tipologie di lavoratori, un modo per metterle nelle condizioni di lavorare di più e in maniera più produttiva. In altre parole, se il lavoro agile costituisce una possibile soluzione che può progressivamente sostituire queste forme di lavoro. Un obiettivo della sperimentazione è sicuramente cercare una risposta a questa domanda. In questa fase, potrebbe essere coinvolto anche il Comitato Unico di Garanzia, al fine di arricchire l’analisi e l’approfondimento dei bisogni. Procedendo, bisogna poi scegliere quali siano i tipi di lavori compatibili con lo smart working. In questa prima fase sperimentale, sarebbe utile avere un campione ridotto, che viene individuato nella direzione ambiente e territorio; gli addetti, infatti, svolgono spesso il proprio lavoro in remoto o direttamente sul territorio; risulta dunque meno imprescindibile la loro presenza in sede. Dopo aver organizzato una riunione con le direzione di queste strutture a scopo formativo e di accoglimento delle istanze, avrà luogo un tavolo di lavoro con il CUG, i rappresentanti dei dipendenti e i dirigenti. Tra gli obiettivi fondamentali di questo incontro, che si dovrà svolgere a più puntate, ci sarà la definizione del modello organizzativo di smart working e dell’accordo individuale proposto ai lavoratori. Una volta trovato e approvato il modello dalle parti, verrà avviata la sperimentazione.
L’ASCI è una realtà amministrativa di dimensioni molto contenute, nella quale dunque l’approccio allo smart working è quello della discussione partecipata tra tutti i dipendenti, a fini formativi e informativi: si vuole illustrare le possibilità e i vantaggi che lo smart working offre sia ai lavoratori, in termini di flessibilità e autonomia, sia alla direzione, come risparmio su buoni pasto, permessi della 104, visite mediche, e così via. In questo specifico contesto l’introduzione dello smart working vuole porre rimedio al problema organizzativo più stressante e visibile: il sovraffollamento dello spazio, che comporta interferenze di comunicazione, eccessiva condivisione, mancanza di privacy, scomodità. Il lavoro agile, che disancora il lavoratore da questo spazio poco confortevole, permette di avere meno distrazione e interruzioni e dunque di migliorare il benessere dei dipendenti e aumentare la qualità e la produttività. Tuttavia, rendere consapevoli i lavoratori verso lo smart working significa anche chiarire che non è possibile per tutti farne richiesta, poiché dipende dalla natura del lavoro svolto e, come si è già visto, dalla sua compatibilità. L’idea è dunque d’individuare, anche se in modo non tassativo, le aree di lavoro che meglio si prestano a essere svolte in autonomia e di somministrare un questionario semi strutturato ai dipendenti coinvolti. Questa fase è dedicata dunque alla mappatura dei bisogni, ma vuole essere anche un momento di condivisione di proposte. Sulla base di tutte queste informazioni, raccolte e discusse, è necessario ritagliare un nuovo modello organizzativo su misura, cioè uno schema di lavoro agile pianificato secondo una logica per obiettivi.
In conclusione, le esperienze esposte mostrano che non esiste un’unica via allo smart working, ma diverse modalità di avvicinamento a questa nuova frontiera del lavoro. La scadenza-obiettivo fissata dalla Direttiva Madia deve essere vista come un benchmark che stimoli la discussione, l’innovazione e la riprogettazione del lavoro all’interno delle amministrazioni pubbliche. Nonostante il mancato raggiungimento dell’obiettivo non comporti sanzioni finanziarie, è doveroso attivarsi quanto prima per sperimentare i benefici dello smart working.
(Si ringraziano per la collaborazione: Anna Maria Borasi, Orietta Bovina, Laura Delfante, Ilaria Sapio, Caterina Sciabica)
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